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Il 25 aprile è una festa di popolo. La festa di tutti quegli italiani che non sono rimasti a guardare. Quegli italiani che hanno rischiato la propria vita per la libertà.
L’Italia era sotto lo scacco nazista, ogni giorno c’erano esecuzioni. Dopo l’8 settembre, la guerra è contro tutti gli italiani, anche i civili sono coinvolti. E se non collaborano, saranno uccisi tutti, donne, vecchi e bambini.
La rivolta non poteva che dilagare. Grandi e piccoli eroi.
Le 4 giornate di Napoli (nel 43) avrebbero potuto esserci senza il coinvolgimento di tutta la città? I famosi scugnizzi che tiravano bombe a mano dalla cima dei palazzi. Studenti e professori insieme sulle barricate. Donne che portavano l’acqua e mordevano le mani ai soldati nazisti.
A Boves, in provincia di Cuneo l’11 settembre 1943 – tre giorni dopo l’armistizio – c’era già nei boschi un nucleo di soldati guidati da Ignazio Vian. Catturano due tedeschi. Il maggiore delle SS Peiper arriva in paese e minaccia ritorsioni. Si fanno avanti un industriale, Antonio Vassallo e il parroco don Giuseppe Bernardi , ai quali il maggiore delle SS promette di risparmiare i civili se i suoi uomini verranno liberati. I due mantengono la parola, e tornano con i prigionieri. Ma al nazista non basta. Carica i due su una camionetta e li porta in giro per il paese come monito.
Poi li brucia. Vivi.
Due eroi troppo spesso dimenticati. Non pago, l’ufficiale tedesco dà fuoco al paese e uccide 25 civili, inermi, incolpevoli.
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A Roma la resistenza silenziosa dei cittadini è dilagante.
Lo stesso governatore della città, “Stahel” dichiara con sarcasmo che metà della popolazione vive nelle case dell’altra metà.
Sono le donne in prima battuta a nascondere non solo i loro uomini,
ma anche i primi inviati degli alleati, i renitenti alla leva,
i partigiani.
Trasmettono messaggi, cercano il cibo per i clandestini, curano i primi feriti. I ragazzini si infilano ovunque. Portano notizie e nascondono bombe a mano.
Come non ricordare i “pischelli” del film di Rossellini “Roma città aperta”?
C’è un quartiere nella capitale, dove per estirpare la resistenza i nazisti ricorrono ad un vero e proprio rastrellamento e si portano via quasi mille uomini. È il “Quadraro”, sud est della città. A Roma si diceva che quando uno voleva sparire si rifugiava o in Vaticano o al Quadraro. E li non lo trovava nessuno. I nazifascisti lo chiamavano “il nido di vespe”. Tutti, ma proprio tutti gli abitanti del quartiere in quegli anni maledetti hanno collaborato a mantenere una rete clandestina fittissima. Formata da realtà locali intrecciate fra loro non solo per idee politiche o religiose, ma soprattutto da legami familiari e territoriali forti.
Persino i nobili si sono mobilitati. Gli Afan de Rivera – aristocratici spagnoli naturalizzati a Roma – hanno tutt'ora un palazzo nelle adiacenze del ghetto. Il marchese Achille , fascista della prima ora, durante il rastrellamento degli ebrei , ne nascose a decine nelle soffitte e nelle cantine e, quando seppe che i nazifascisti stavano per perquisire il palazzo, si presentò con la divisa della milizia, sbraitando che fino a che lui era in vita nessuno poteva entrare nel suo palazzo senza il suo consenso. I nazi se ne andarono e alla famiglia Afan de Rivera è stato dato il riconoscimento di “giusti tra le nazioni “.
Si potrebbe continuare a lungo. Raccontare di case che si aprono nella notte, di feriti curati nei pagliai, di ricercati nascosti in cantina, di madri che fanno scudo con il proprio corpo ai figli.
Le storie delle suore di Firenze, Giuste tra le Nazioni per aver salvato centinaia di ebrei; dei sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che sceglie di morire con i suoi parrocchiani dicendo
“vi accompagno io davanti al Signore” o di don Pappagallo, il sacerdote che nascondeva partigiani e che fu tra le vittime delle Fosse ardeatine ; degli alpini della Val Chisone che rifiutano di arrendersi ai nazisti perché “le nostre montagne sono nostre”; dei tre carabinieri di Fiesole che si fanno uccidere per salvare
gli ostaggi ; dei 600 mila internati in Germania che come Giovanni Guareschi – il papà di Don Camillo e Peppone – restano nei lager a patire la fame e le botte, pur di non andare a Salò a combattere altri italiani.
Dei ferrovieri che raccoglievano i biglietti dei deportati , col rischio di essere deportati anche loro. Di casellanti che tenevano chiuse (o cercavano di tenere) più che potevano le sbarre dei passaggi a livello per aiutare le azioni partigiane.
Di maestre che facevano cantare a squarciagola gli alunni per coprire il suono di radio Londra o i rumori del partigiano nascosto in soffitta. E tanti, tanti ancora.
Dimenticati, sottaciuti, sottovalutati. Eroi anche solo per un giorno, che per amore o per odio, non sapendolo neppure, hanno fatto la storia.

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